Sito commodity o sito asset: capire la differenza che conta davvero

Scritto da: Fabrizio Gabrielli

Il sito aziendale può essere trattato come una commodity o come un asset strategico. La differenza non è tecnica, ma organizzativa: cambia il modo in cui il sito genera valore, supporta il business e accompagna le decisioni nel tempo.

Tempo di lettura: 13 minuti

Sito aziendale: commodity o asset strategico? Una scelta che cambia tutto

Vediamo cosa cambia, concretamente, tra un sito trattato come commodity e uno concepito come asset aziendale.

Il punto non è avere un sito, ma il ruolo che gli si assegna

Oggi avere un sito aziendale è una condizione data per scontata. È difficile immaginare un’impresa strutturata che non abbia una presenza digitale minima, se non altro per essere trovata, verificata, riconosciuta.
Eppure, nonostante questa apparente normalizzazione, i risultati che le aziende ottengono dai loro siti sono estremamente diversi.

La differenza raramente sta nella tecnologia utilizzata, nel CMS o nel design più o meno aggiornato. Sta quasi sempre nel ruolo che al sito viene assegnato all’interno dell’organizzazione.
Per alcune aziende il sito è un semplice requisito: qualcosa che “deve esserci”. Per altre, è una leva strategica, integrata nei processi di marketing, vendita e posizionamento.

È qui che si apre una distinzione fondamentale, spesso sottovalutata: il sito come commodity e il sito come asset aziendale.
Due modi opposti di interpretare lo stesso strumento, con conseguenze molto diverse nel tempo.

Quando il sito viene trattato come una commodity

Considerare il sito come una commodity significa, di fatto, ridurlo a un costo necessario, da sostenere una volta e possibilmente da comprimere il più possibile.
In questa visione, il sito assolve a una funzione di base: rappresentare l’azienda online, fornire qualche informazione istituzionale, “esserci”.

È un approccio estremamente diffuso, soprattutto quando il sito nasce come progetto una tantum.
Si definisce un budget, si realizza il sito, lo si pubblica e, salvo rare eccezioni, lo si considera concluso. Eventuali interventi futuri vengono percepiti come spese extra, non come parte di un percorso.

In questo scenario:

  • il successo del progetto viene spesso misurato in termini estetici (“è bello”, “è moderno”);
  • l’evoluzione nel tempo non è pianificata;
  • SEO, dati e performance restano sullo sfondo o vengono affrontati in modo episodico;
  • il sito non ha una vera ownership strategica interna.

Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato in questa scelta.
Diventa un problema solo quando da un sito trattato come commodity ci si aspettano risultati da asset: visibilità costante, opportunità commerciali, supporto al marketing, ritorni misurabili.

Ed è proprio in questo scollamento tra aspettative e impostazione che nascono molte delle frustrazioni legate ai siti aziendali.

Le conseguenze operative di un sito commodity

Quando un’azienda sceglie – consapevolmente o meno – di trattare il proprio sito come una commodity, le conseguenze non sono immediate né sempre evidenti.
Nel breve periodo, tutto sembra funzionare: il sito è online, rappresenta il brand, risponde a requisiti minimi di presenza digitale. Il problema emerge nel medio-lungo termine, quando il sito viene chiamato a svolgere un ruolo che non è stato progettato per sostenere.

Dal punto di vista operativo, un sito commodity presenta alcune criticità ricorrenti.

  1. Visibilità organica limitata e discontinua

Un sito concepito come commodity tende ad avere una struttura statica, con poche pagine e contenuti generici. Questo riduce drasticamente la possibilità di presidiare query rilevanti sui motori di ricerca.
Non si tratta solo di “fare SEO”, ma di avere un’architettura informativa, contenuti e segnali che permettano al sito di competere nel tempo. In assenza di questa impostazione, la visibilità organica resta marginale o instabile.

  1. Scarsa capacità di generare opportunità qualificate

Un sito commodity raramente è progettato per accompagnare l’utente lungo un percorso decisionale. Mancano spesso:

  • punti di ingresso differenziati,
  • contenuti orientati alle diverse fasi del processo decisionale,
  • elementi di fiducia strutturati.

Il risultato è un sito che informa, ma non orienta.
Le visite possono anche esserci, ma faticano a trasformarsi in contatti realmente qualificati.

  1. Dipendenza crescente da canali a pagamento

Quando il sito non lavora come asset, diventa un semplice punto di atterraggio. Questo porta molte aziende a compensare con campagne paid continue, spesso senza una reale integrazione con il sito stesso.
Nel tempo, il costo di acquisizione tende a salire, mentre il sito resta passivo: non apprende, non migliora, non accumula valore.

  1. Assenza di dati utili alle decisioni

Un altro limite tipico del sito commodity è la scarsa attenzione alla misurazione.
Senza un’impostazione orientata ai dati, il sito non restituisce insight utili su:

  • comportamento degli utenti,
  • colli di bottiglia,
  • contenuti realmente rilevanti.

Le decisioni vengono quindi prese per percezione o abitudine, non sulla base di evidenze.

In Pistakkio® ci capita spesso di intercettare aziende che si pongono la domanda “il nostro sito è una commodity o un asset?” solo dopo aver sperimentato questi limiti.
Non perché la scelta iniziale fosse sbagliata in assoluto, ma perché nel frattempo sono cambiate le aspettative: al sito viene chiesto di contribuire attivamente al business.

Ed è proprio qui che diventa necessario un cambio di prospettiva.

Quando il sito viene concepito come asset aziendale

Parlare di sito commodity o asset non è un esercizio teorico.
Nel momento in cui un’azienda sceglie di trattare il sito come asset aziendale, cambia radicalmente il modo in cui viene progettato, governato e valutato.

Un sito-asset non è “più grande” o “più costoso” per definizione. È pensato per produrre valore nel tempo, non solo per assolvere a una funzione di presenza.

Dal punto di vista operativo, un sito concepito come asset presenta alcune caratteristiche ricorrenti.

  1. È progettato come infrastruttura, non come progetto chiuso

Un asset digitale non nasce per essere “finito”. Nasce per essere:

  • manutenuto,
  • misurato,
  • migliorato.

Questo significa che architettura, contenuti, performance e SEO vengono pensati in modo modulare e scalabile. Il sito non è un oggetto statico, ma una piattaforma che può evolvere insieme al business.

  1. Genera valore cumulativo nel tempo

La differenza più rilevante tra sito commodity e sito asset sta nella cumulabilità del valore.
Un sito asset:

  • accumula visibilità organica,
  • consolida segnali di autorevolezza,
  • migliora l’efficacia delle attività di marketing,
  • riduce progressivamente il costo di acquisizione.

A differenza delle attività puramente tattiche, il valore non si azzera allo spegnimento di una campagna.

  1. Supporta decisioni basate sui dati

Un sito asset è progettato per restituire informazioni utili.
Dati su comportamento, percorsi, contenuti più rilevanti, punti di frizione. Questo consente all’azienda di prendere decisioni informate, non intuitive.

Il sito diventa così uno strumento di apprendimento continuo sul mercato e sui propri clienti.

  1. È integrato nei processi aziendali

Quando il sito è un asset, non vive isolato.
Dialoga con:

  • marketing,
  • sales,
  • customer care,
  • branding.

Diventa un punto di convergenza, non un silos.
Questo è uno degli aspetti che in Pistakkio® consideriamo centrali: il sito non come “oggetto del reparto marketing”, ma come asset trasversale, con impatti misurabili sull’intera organizzazione.

  1. Riduce la dipendenza strutturale da canali esterni

Un sito asset rafforza il presidio dei canali proprietari.
Questo non significa rinunciare al paid o ad altre leve, ma riequilibrare il mix, evitando che ogni risultato dipenda da investimenti continui verso piattaforme terze.

Nel medio periodo, questa impostazione aumenta la resilienza digitale dell’azienda.

In sintesi, trattare il sito come asset significa spostare la conversazione:

  • da “quanto costa”
  • a “che ruolo gioca nel modello di crescita”.

Ed è a questo punto che entra in gioco un tema spesso frainteso: la governance.

Asset significa governance, non “fare SEO”

Uno degli equivoci più frequenti quando si parla di sito come asset aziendale è ridurre tutto a una questione di strumenti o tattiche: SEO, contenuti, performance, campagne.
In realtà, la differenza tra un sito commodity e un sito asset non è operativa, ma organizzativa.

Un asset, per definizione, richiede governance.

Questo significa che il sito non può essere trattato come un progetto delegato una volta per tutte, né come un insieme di attività sporadiche. Deve avere:

  • una visione,
  • una responsabilità chiara,
  • una continuità decisionale.

Senza questi elementi, anche un sito tecnicamente ben costruito tende, nel tempo, a scivolare di nuovo verso una logica da commodity.

1. Chiarezza di ownership e responsabilità
In un sito asset è chiaro chi decide, chi misura e chi governa l’evoluzione.
Non necessariamente una singola persona, ma un perimetro definito. Quando questa ownership manca, il sito diventa terreno neutro: nessuno lo presidia davvero, nessuno ne guida lo sviluppo.

2. SEO come funzione, non come attività spot
In un modello asset, la SEO non è un servizio accessorio né un intervento occasionale. È una funzione continua che accompagna:

  • l’evoluzione dei contenuti,
  • le scelte architetturali,
  • le priorità di business.

Questo è un punto su cui in Pistakkio® insistiamo molto: la SEO non è una leva isolata, ma parte integrante della governance del sito. Senza questa integrazione, anche il miglior lavoro iniziale perde efficacia nel tempo.

3. Continuità decisionale e iterazione
Un sito asset non viene “rifatto” ciclicamente. Viene migliorato.
Le decisioni non si basano su mode o percezioni, ma su dati: cosa funziona, cosa no, dove intervenire. Questo richiede un approccio iterativo, che mal si concilia con la logica del progetto chiuso.

4. Allineamento con gli obiettivi di business
La governance serve anche a evitare uno degli errori più comuni: un sito che cresce in modo disallineato rispetto alle priorità aziendali.
Quando il sito è asset, ogni intervento viene valutato in relazione a obiettivi concreti: posizionamento, opportunità commerciali, efficienza dei processi, riduzione dei costi indiretti.

In assenza di governance, il rischio è evidente: il sito resta online, ma torna a comportarsi come una commodity, anche se inizialmente era nato con ambizioni diverse.

È per questo che la distinzione sito commodity o asset non può essere risolta con una scelta tecnica.
È una decisione strategica che riguarda come l’azienda governa il proprio digitale.

La domanda sbagliata e quella giusta

Quando si affronta il tema sito commodity o asset, c’è una domanda che emerge quasi sempre per prima:

“Quanto costa un sito?”

È una domanda legittima, ma è anche una domanda incompleta.
Il problema non è chiederla, bensì fermare il ragionamento lì.

Dal punto di vista economico e strategico, un sito concepito come commodity e un sito concepito come asset rispondono a logiche molto diverse.

Un sito commodity viene valutato come un costo:

  • una spesa iniziale,
  • un orizzonte temporale breve,
  • un valore che tende a esaurirsi nel momento stesso in cui il progetto è concluso.

Un sito asset, invece, va valutato come investimento:

  • ha un ciclo di vita più lungo,
  • genera benefici progressivi,
  • contribuisce a ridurre altri costi nel tempo (acquisizione, dipendenza da canali esterni, inefficienze operative).

Il punto, quindi, non è stabilire se un sito “costi troppo”, ma capire che tipo di ritorno ci si aspetta.

Ed è qui che entra in gioco una seconda domanda, molto meno frequente ma decisamente più rilevante:

“Quanto ci costa non avere un sito che lavora come asset?”

Il costo opportunità di un sito trattato come commodity è spesso invisibile, ma reale:

  • opportunità perse perché il sito non intercetta domanda qualificata;
  • investimenti pubblicitari meno efficienti perché il sito non converte;
  • decisioni prese senza dati solidi perché il sito non misura;
  • tempo e risorse spese per “rifare” invece che per migliorare.

In Pistakkio® osserviamo spesso questo schema: aziende che hanno speso poco per il sito, ma che nel tempo hanno speso molto di più per compensarne i limiti.
Non perché abbiano fatto una scelta sbagliata in origine, ma perché le aspettative sono cresciute, mentre l’impostazione è rimasta quella di una commodity.

Quando le aspettative cambiano – più visibilità, più opportunità, più controllo – anche il modello deve cambiare.
Ed è in quel momento che il passaggio da sito commodity a sito asset diventa non solo auspicabile, ma necessario.

Non tutte le aziende hanno bisogno di un sito-asset

Ed è una scelta legittima

Affermare che un sito può essere un asset aziendale non significa sostenere che debba esserlo sempre e comunque.
Esistono contesti in cui trattare il sito come commodity è una scelta coerente, razionale e perfettamente sostenibile.

Aziende che operano quasi esclusivamente tramite relazioni dirette, reti commerciali consolidate o canali offline possono non avere, almeno in una fase, l’esigenza di trasformare il sito in una piattaforma strategica. In questi casi, un sito essenziale può assolvere correttamente al suo ruolo informativo e reputazionale.

Il problema nasce altrove.

Nasce quando un’azienda:

  • chiede al sito di generare opportunità costanti,
  • si aspetta che supporti marketing e vendite,
  • pretende visibilità, affidabilità e misurabilità,

ma continua a governarlo come una commodity.

È qui che la distinzione sito commodity o asset diventa cruciale.
Non perché una delle due opzioni sia “giusta” in senso assoluto, ma perché ogni scelta porta con sé aspettative compatibili solo con un certo modello.

In Pistakkio® non partiamo mai dal presupposto che ogni azienda debba avere un sito-asset.
Partiamo dalla domanda opposta: che ruolo deve avere il sito nel modello di business?
Solo dopo diventa sensato parlare di investimento, governance e strategia.

Quando ha senso investire davvero

I segnali di maturità digitale

Esistono alcuni segnali chiari che indicano quando un’azienda è pronta a trattare il proprio sito come asset aziendale, e non più come semplice commodity.

In genere, queste aziende:

  • ragionano su orizzonti di medio-lungo periodo;
  • sono disposte a misurare, analizzare e migliorare;
  • cercano coerenza tra marketing, vendite e posizionamento;
  • accettano che il valore si costruisca nel tempo, non per accumulo di interventi spot.

In questi contesti, il sito smette di essere un “progetto” e diventa un sistema.
Un sistema che apprende, si adatta e restituisce valore informativo e commerciale.

È anche il punto in cui la SEO, i contenuti, l’architettura e i dati cessano di essere attività isolate e iniziano a funzionare come parti di un disegno più ampio.

Chiosa

Una scelta strategica, prima ancora che tecnica

Alla fine, la distinzione tra sito commodity o asset non riguarda il web, la SEO o la tecnologia.
Riguarda il modo in cui un’azienda decide di investire, misurare e costruire valore nel tempo.

Un sito può limitarsi a “esserci”.
Oppure può diventare una componente strutturale della crescita.

Entrambe le strade sono legittime, purché siano scelte consapevoli.

Se la vostra organizzazione ragiona già in termini di valore nel tempo, questa distinzione probabilmente merita più di una considerazione superficiale.

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Autore

Fabrizio Gabrielli

Mi piace camminare all'aria aperta, amo le penne stilografiche e la mia moto Kawasaki ER6-f. SEO Expert, Growth Hacking Manager e web marketing addicted. Dopo una ventennale collaborazione con svariate multinazionali, soprattutto dalla Germania e dagli USA, nel febbraio 2019 ho fondato Pistakkio®, che è marchio registrato in tutta Europa. Creo Valore nel posizionamento SEO di progetti web e faccio pubblicità online su Google Ads per le piccole e medie imprese del tessuto imprenditoriale local business in Toscana e in tutto il Centro Italia.